A poche settimane dall'uscita della serie televisiva su Jeffrey Dahmer sono tante le domande che ci viene da farci in merito.

Si può davvero empatizzare con Jeffrey Dahmer? A poche settimane dall’uscita su Netflix della serie televisiva che sta facendo discutere il mondo intero, questo rimane l’unico vero grande quesito.
Jeffrey Dahmer: empatizzare col “cattivo” non vuol dire giustificarlo
Non è la prima volta che succede: un attore belloccio interpreta un pazzo assassino e quel personaggio, questa volta realmente esistito, prende una piega diversa agli occhi del grande pubblico. Improvvisamente Jeffrey Dahmer è diventato un’icona, un simbolo. Quello che però gli spettatori di Netflix non sanno, è che lo è sempre stato, ma oggi potrebbe fare davvero la differenza. Perché?
Jeffrey Dahmer fu arrestato nel 1991. Non ha mai chiesto sconti di pena, non ha mai cercato giustificazioni, non ha mai mentito. Il cannibale di Milwaukee si è presentato così, come il mostro. Dalle sue prime settimane di permanenza in carcere ha iniziato a ricevere lettere delle sue ammiratrici (donne, per lo più); queste gli inviavano soldi e regali, infastidendo per altro gli altri detenuti del penitenziario.
«Perché sono come sono?»
Se nei primi Novanta Jeffrey Dahmer è diventato un’icona per motivi imprecisati, oggi potrebbe diventarlo per altri. E questo diritto non potrebbe toglierglielo nessuno. L’assassino di Milwaukee si è sempre sentito colpevole e disgustato per ciò che ha fatto a 17 uomini, ragazzi e giovanissimi e la sua prima richiesta fu quella di avere una sentenza di morte, che però gli è stata negata. Non appena ha avuto modo di parlare con il procuratore (e non solo) la richiesta di Dahmer è stata solo una: perché sono come sono? E in effetti ce lo chiediamo anche noi: perché questo assassino era come era? Cosa lo ha spinto a fare ciò che ha fatto? Cosa lo ha scatenato?
È vero, oggi il cannibale di Milwaukee è diventato un’icona per via del suo personaggio interpretato da Evan Peters, ma quello che ci sfugge è che potrebbe davvero essere il simbolo per la legittimazione delle malattie mentali in quanto tali. Jeffrey Dahmer aveva uno spettro autistico sviluppato, un principio di depressione acuta e diverse parafilie che lo hanno portato a essere ciò che oggi ricordiamo come una delle pagine più buie dell’umanità tutta. È vero, Jeffrey Dahmer è stato un mostro, ma il mostro, lui, ce l’aveva dentro.
Oggi il paradosso è soltanto uno: viviamo in una società attenta al prossimo, o così ci piace pensare. Viviamo in un presente che è sempre più lucido sulle malattie mentali e sul riconoscerle e – finalmente – dargli il valore che meritano, in quanto vere e proprio malattie. Ma nonostante questo, Jeffrey Dahmer resta un mostro. No. Nessuno deve e può permettersi di giustificare ciò che quest’uomo ha fatto. Nessuno può cercare di rendere meno tragica la fine che hanno fatto le sue vittime. Nessuno può ignorare cosa è successo nel suo appartamento. Ma tutti, oggi più che mai, abbiamo il dovere di riconoscere i nostri limiti di uomini.
Gli studi
È facile puntare il dito. È facile sottrarsi dal giudizio di se stessi e addossarlo a un altro, ma la verità è solamente una: se Jeffrey Dahmer fosse stato seguito da specialisti durante tutta la crescita, oggi, ne parleremmo con gli stessi toni? Se gli agenti di polizia e gli specialisti che hanno avuto modo di valutarlo nel tempo non fossero stati così negligenti, oggi, conosceremmo la sua storia? Se Jeffrey Dahmer fosse stato realmente amato dai suoi genitori, da sua madre, oggi staremmo parlando di lui come il terribile cannibale di Milwaukee? Sono domande che resteranno senza una risposta, purtroppo. Ma sono le stesse che dovremmo farci ogni volta che veniamo in contatto con la cruda realtà della vita, con la brutale immagine della salute mentale, che talvolta ci porta a gesti inconsulti e a epiloghi drammatici.
Senza scomodare la cronaca nera estera, pensiamo a ciò che è successo a Milano; la stessa Milano dove una bambina di pochi mesi è stata lasciata a casa da sola per giorni da una madre classificata degenere. Certo, Alessia Pifferi non è un esempio di genitore competente, ma cosa sarebbe successo se la sua depressione post partum fosse stata considerata al pari di una malattia fisica, vera e invalidante? Oggi parleremmo di lei come la donna che ha lasciato morire la figlia di stenti? La mente gioca brutti scherzi e il confine fra sano e insano è così sottile che a volte si perde il raziocinio. È impossibile negare che la salute mentale non abbia un ruolo fondamentale nelle nostre vite ed è impossibile ignorare che tutti, nessuno escluso, potremmo esserne vittime.
Certo, esistono molti depressi e di Jeffrey Dahmer ne è esistito – ufficialmente – solo uno. Ma la sua storia, la storia del suo passato, non possono non aprirci a uno spunto importante: se fosse stato curato, oggi, ne staremmo parlando? Se qualcuno si fosse accorto di lui, oggi lo conosceremmo come il cannibale di Milwaukee? Probabilmente no.