Carlo Conti ha definito Bianca Balti una "guerriera": è arrivato il momento di cambiare il nostro vocabolario.

Qualche sera fa, Carlo Conti, nel presentare i co-conduttori e le co-conduttrici del prossimo Festival di Sanremo, di cui è presentatore e direttore artistico, ha evidenziato le caratteristiche professionali di ognuno: ha parlato della comicità di Katia Follesa, dell’ironia di Geppi Cucciari, della voce di Elettra Lamborghini e così via.
Quando è stato il turno di Bianca Balti, Conti l’ha definita “guerriera”, perché attualmente la modella è malata di cancro. Il fatto di averla presentata come “guerriera” l’ha ridotta alla sua malattia, come se lei fosse il tumore per cui si sta curando. Ma, soprattutto, la definizione di “guerriera” significa che sarà su quel palco non per la sua carriera da top model né per la sua fama internazionale, bensì perché è malata.
Perché i malati non vanno chiamati “guerrieri”: dobbiamo modificare il nostro vocabolario
Questo tipo di narrazione della malattia è del tutto sbagliata, fuorviante ed escludente, perché nessun malato è la sua malattia e nessuna malattia diventa un merito o una colpa, qualsiasi sia la reazione del malato di fronte a ciò di cui soffre. Ma non solo: il malato come guerriero e, conseguentemente, la malattia come lotta prevedono dei vincitori e dei vinti, prevedono che da una parte ci sia chi trionfa e dall’altra chi viene sconfitto.
Siccome le parole hanno un significato preciso, definiscono il senso delle cose e, quindi, fanno il mondo in cui viviamo, è bene utilizzarle con cura e buon senso: chi è malato non lotta, ma si cura; chi è malato non è un guerriero, ma è una persona affetta da una malattia. Perché è importante cambiare il nostro modo di parlare? Innanzitutto, per il più ovvio dei motivi: questo tipo di narrazione prevede che chi guarisce vinca, mentre chi muore perda. Capirete, senza che io aggiunga altro, che c’è uno sbaglio di fondo: di fronte alla malattia, non ci sono perdenti o vincenti.
Inoltre, la malattia scardina ogni certezza, destabilizza, spesso trasforma l’intimità che ognuno ha con il proprio corpo, quindi la reazione alla malattia è soggettiva: non avere un atteggiamento agguerrito (ecco un altro aggettivo che rimanda alla guerra), avere paura, sentirsi spaventati e sfortunati significa partire svantaggiati? Non avere le caratteristiche del guerriero (coraggio, spavalderia, sicurezza) significa non essere abbastanza forti, essere perdenti, essere destinati alla sconfitta?
Parlare di malattia e malati: perché è il momento di cambiare rotta
Chi muore non muore perché non si è impegnato abbastanza, non è stato sconfitto, non è uno che ha combattuto ma non ce l’ha fatta. Chi ha paura non è un perdente, non è il contrario del guerriero propriamente detto. Credo, e temo anche, che un certo tipo di vocabolario serva a chi racconta la malattia, che così facendo la idealizza, più che al malato stesso. Credo serva a prenderne le distanze, a scongiurare la paura che fa, a non dover sentire il peso della fatalità, del «può succedere da un momento all’altro a chiunque».
Più la malattia diventa una lotta, più il malato diventa un guerriero, più – automaticamente – la malattia si allontana, trasformandosi in qualcosa di intangibile, di irreale, di “fiabesco”: da qualche parte, lì fuori, ci sono dei guerrieri che lottano, che devono mostrare eroismo e determinazione per sconfiggere il nemico che invade, per poi rispedirlo indietro. Chi non ci riesce, ovviamente, è lo sconfitto della storia.
Credo, inoltre, che un certo vocabolario venga utilizzato dai malati stessi perché innanzitutto ne sono vittime e poi, e qui non mi permetto di giudicare, perché il dolore della malattia porta, immagino inevitabilmente, a volerla considerare un corpo estraneo. Ma la malattia è dentro, si fa dentro, non arriva da fuori come un nemico che invade.
Ecco, cambiare il nostro vocabolario è importante per rispettare chi è malato, per non mettergli addosso il peso di dover reagire alla malattia in un modo soltanto: da eroe. Per permettergli di non sentirsi sbagliato, frustrato, condannato, ma libero di farsi una vita in cui la malattia c’è, ma non è la sua vita stessa. Per vivere con dignità e per morire con la stessa dignità. Per accogliere la persona e non il personaggio che vogliamo che interpreti. Per restare umani.