Sinead O’Connor, la depressione uccide: le malattie mentali non sono di Serie B

Di depressione si muore e Sinead O'Connor ce lo ha spiegato: cosa ci insegna la sua storia? Un viaggio nella menta della cantante

I tempi sono cambiati, ma le malattie no. La prematura morte di Sinead O’Connor può insegnarci solo una cosa: avere il dovere morale di riconoscere i disturbi mentali come reali disturbi e non come patologie di Serie B o – addirittura – come periodi bui passeggeri, sui quali non bisognerebbe concentrarsi più di tanto. La depressione esiste e uccide, non importa come e non importa quando: lo fa. Ne è piena la storia di casi simili e lo sarà per molto tempo fino a quando, finalmente, non sapremo darle la giusta importanza.

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Nothing Compares 2 U, la canzone simbolo di Sinead O’Connor. rappresenta senza dubbio un cult della musica che ha caratterizzato gli anni ’90, ma certamente non è solo questo: è un brano intenso ed emotivo che esplora i temi del dolore, della solitudine e della fine di una relazione significativa. Il testo della canzone parla di un profondo senso di vuoto e tristezza che l’artista sperimenta dopo la fine di una storia d’amore. Il brano trasmette una profonda sensazione di rimpianto e nostalgia per ciò che è stato perso, e riflette su quanto sia difficile affrontare il dolore di una rottura. Nelle parole di Sinead c’era tutto, ma non lo abbiamo capito. Perché?

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Sinead O’Connor ci insegna che la depressione uccide

La fine di Sinead O’Connor potrebbe tuttavia rappresentare un inizio, quasi come fosse un sacrificio necessario: la vita della cantante non è stata facile, costellata da tristi episodi e della ferma e violenta battaglia contro un male oscuro e invisibile. Questo è la depressione: invisibile. Ne siamo proprio sicuri? La patologia viene spesso descritta come uno strisciante senso di impotenza e dolore, avvertito solo nelle viscere e nella mente di chi ne soffre.

Ma questo non è vero.

Sarebbe troppo facile giustificarsi dicendo che la depressione sia insospettabile, che nessun sintomo può essere visto, toccato e avvertito. Sarebbe troppo facile e infatti non lo è. La depressione esiste e si vede, anche quando sembra di no. Sinead O’Connor ha lanciato spesso degli appelli per rendere reale e palpabile la sua malattia, ma il risultato – fatta eccezione, per fortuna, per qualche raro caso – è stata la noncuranza generalizzata, la minimizzazione del dolore e – peggio – della malattia stessa.

In una sua drammatica intervista, Sinead O’Connor ha descritto la sua condizione come un terribile stato di buio crescente, dal quale non si scappa. La sua storia, la sua vita, raccontano le granitiche fondamenta di una depressione profonda e maggiore, non legata a episodi sporadici e quotidiani, bensì ben radicati nel cervello e nello scorrere lento di un’esistenza votata inconsapevolmente e irrimediabilmente alla morsa del dolore.

L’origine della malattia

È banale, per quanto necessario, ripercorrere l’infelice infanzia di Sinead fatta di una madre violenta, di una famiglia frammentata, di episodi di maltrattamenti e ancora di tanto altro purtroppo. È banale, ma dobbiamo dircelo: questo è quello che i malati di depressione grave combattono ogni giorno; una condizione di continua precarietà, di imminente caduta, di destabilizzazione tutta. E come se non bastasse, poi, le continue ripicche della vita: le finestre aperte su un mondo che va per conto suo e che lascia indietro i deboli, perché non ha tempo per loro.

Sinead O’Connor era madre di quattro figli: Shane, di 17 anni, lo scorso anno si è suicidato. Il ragazzo era scomparso da due giorni, dopo esser scappato da un ospedale psichiatrico dove era ricoverato per aver manifestato tendenze suicidiarie. L’Irish Times ha riportato l’annuncio della morte della cantante, con tanto di comunicato da parte della famiglia: “È con grande tristezza che annunciamo la scomparsa della nostra amata Sinead. La sua famiglia e i suoi amici sono devastati e hanno chiesto privacy in questo momento molto difficile”. Sinead era depressa, suo figlio era depresso: la malattia è ereditaria?

La depressione è ereditaria?

Una domanda, a volte, sorge spontanea: la depressione è ereditaria oppure no? Rispondere non è semplice. La malattia di cui soffriva Sinead O’Connor non è strettamente trasmissibile, ma convivere a stretto contatto con una persona malata può inevitabilmente portare a un incentivo verso i disturbi mentali.

La depressione può essere trasmessa di madre in figlio? Per anni si è sostenuta la tesi secondo cui la malattia avrebbe alla sua base una sorta di pavimento genetico, ma un recente studio pubblicato sull’American Journal of Psychiatry ha dichiarato che la patologia di cui stiamo parlando sia multifattoriale e molto complessa, presentando – comunque – dei fattori ereditari e genetici che al contempo si combinano con ulteriori fattori di rischio di tipo ambientale.

Dunque, la depressione non è ereditaria, ma può essere familiare; questa, dunque, può circolare fra i componenti della stessa famiglia. Dalla ricerca emerge che i figli di genitori con trascorsi di malattia incorrono in una maggiore probabilità di sviluppare lo stesso disturbo. In questo caso, il figlio di Sinead O’Connor ne è la prova.

Ecco cosa leggiamo su janssenconte.it: “Una recente ricerca ha svelato come i giovani cresciuti a stretto contatto con situazioni depressive, avevano l’area destra del cervello – quella legata alla gratificazione, alla motivazione e all’esperienza del piacere – più piccola rispetto a quella dei coetanei. […] Chiaramente anche chi ha un bassissimo rischio genetico di sviluppare la depressione, può ugualmente sviluppare la malattia in caso di situazioni fortemente difficili, ma maggiore è la predisposizione biologica, minore deve essere il fattore ambientale in grado di scatenare la depressione”.

Ancora, allora, una domanda sorge spontanea: perché non riusciamo a trattare la depressione come una vera malattia? Perché Sinead O’Connor ha dovuto combattere da sola contro i suoi mostri e – soprattutto – perché oggi non viene giudicata “una guerriera” come spesso vengono definite le donne che “perdono” la loro battaglia contro il cancro? Forse dovremmo partire proprio da qui.

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