Parlare dello stupro di Palermo senza parlare della cultura dello stupro non ha senso

Cos'è la cultura dello stupro e perché, dopo i fatti di Palermo, è più che mai importante parlarne? Ecco di cosa si tratta.

Il problema, quando si parla dello stupro di Palermo, è che si parla solo dello stupro di Palermo. Come se fosse un caso isolato, unico, decontestualizzato, senza radici, senza un quadro socio-culturale di riferimento. Un fatto, insomma, un incidente. Grave, drammatico, raccapricciante, ma pur sempre e solo un caso straordinario (nel senso di fuori dall’ordinario, dalla normalità).

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Invece, purtroppo, non è così. Parlare dello stupro di Palermo come di un evento isolato significa non prendere affatto in considerazione o – alla meglio – sottovalutare quello che c’è alla base di un caso del genere: la cultura dello stupro.

Cos’è la cultura dello stupro e perché è importante parlarne dopo lo stupro di Palermo

L’espressione “cultura dello stupro” si riferisce a una “cultura” nella quale la violenza di genere è molto diffusa, minimizzata e normalizzata. Ma c’è di più: non solo la violenza in sé, ma anche gli atteggiamenti e le pratiche che la giustificano o incoraggiano fanno parte di questa cultura.

Nello specifico, fa riferimento a una serie di comportamenti di cui siamo colpevoli (spesso inconsciamente perché assuefatti da una società maschilista): l’utilizzo di un linguaggio misogino, l’oggettivazione del corpo delle donne, la stigmatizzazione dei comportamenti sessuali delle donne e, soprattutto, la colpevolizzazione della vittima quando subisce un abuso. Questa cultura, insomma, dà alla vittima la responsabilità della violenza che ha subito.

In altre parole, quando diciamo «Se l’è cercata», «Com’era vestita?», «Era ubriaca», «A quell’ora che ci faceva in giro?», «Perché non ha denunciato subito?» siamo complici della cultura dello stupro.

Non ha senso parlare di castrazione chimica: ecco perché

Per tale motivo, è totalmente inutile, fuorviante, semplicistico parlare di castrazione chimica per i sette stupratori di Palermo. A farlo, com’è ben noto, è spesso Matteo Salvini, uno dei ministri dell’attuale governo in carica. Com’era prevedibile, l’ha fatto anche questa volta. Il punto è che si tratta della solita, conveniente, efficace propaganda della castrazione, di fatto inapplicabile in termini concreti. Utile per ottenere consensi, like, applausi scroscianti, perché – ahinoi – la gente apprezza il fatto che un rappresentante delle istituzioni parli la propria stessa lingua, quella della rabbia, del livore, della vendetta fai da te. Ma, di fatto, è fumo negli occhi, niente di più.

Non solo è inapplicabile, ma non risolve assolutamente niente, perché punisce sette stupratori, ma non smantella la cultura dello stupro: finché non sarà chiaro che uno stupro non ha nulla a che vedere con il sesso, ma con una cultura patriarcale e sessista, che vede la donna come un oggetto del maschio, il problema non si risolverà. C’è un’intera società da rieducare.

Anche per tale motivo, è sbagliato, oltre che deviante, chiamare gli stupratori «bestie», «animali», «mostri», perché li eleva (o li abbassa, dipende dai punti di vista) a qualcosa di intangibile, distante, estraneo alla realtà: da una parte ci siamo noi, quelli che certe cose non le fanno e non le farebbero mai, dall’altra loro, i «mostri», quelli da cui prendiamo le distanze con tutte le nostre forze.

Ma la verità è che per favorire la cultura dello stupro non serve essere stupratori. Ognuno di noi – purtroppo – almeno una volta nella vita – se ne è fatto complice. Per tale motivo, c’è un’intera da società da cambiare: per evitare le violenze, non serve castrare chi, una violenza, l’ha già fatta. Serve, piuttosto, educare tutti e tutte sin dalla scuola primaria. Serve formare le coscienze. È necessario ricominciare dalle basi.

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