Brielle Asero e la cultura del lavoro come sacrificio: ecco una riflessione su quanto di più sbagliato la nostra cultura abbia mai prodotto.
La vicenda di cui vi parlo, negli ultimi giorni, ha fatto velocemente il giro dei social: la tiktoker Brielle Asero, 21 anni, ha pubblicato un video – in lacrime – in cui rivela di aver scoperto di dover lavorare otto ore al giorno (più un’ora di viaggio per raggiungere il posto di lavoro e poi tornare a casa) e di non avere più una vita.
Partiamo da una premessa: sono pienamente d’accordo con lei. So che gli articoli che parlano di questa vicenda hanno il preciso scopo di solleticare la pancia dei vecchi boomer di Facebook, ma questa storia mi consente di fare una riflessione più ampia su un tema spinoso, quello del lavoro.
Sì, lo so, «si è sempre fatto così», dirà qualcuno, ma il fatto che una cosa si sia perpetrata nel tempo non vuol dire che sia automaticamente giusta o che non possa essere modificata o migliorata. La cultura del lavoro, visto come sacrificio, rinuncia alla cura del tempo, conditio sine qua non per il godimento, è quanto di più sbagliato la nostra cultura abbia mai prodotto.
La cultura del lavoro come sacrificio
Pensaci: ti alzi che è ancora buio, vai al lavoro, torni a casa che è già buio. E la giornata è finita. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. Lo so, c’è chi un lavoro non ce l’ha. E so anche che averne uno, visti i tempi che corrono, è un privilegio. Ma io parlo di un concetto più ampio: non è il lavoro in sé, ma il fatto che vivere significhi sacrificare gli anni di mezzo per raggiungere il traguardo, che arriva quando non si hanno più l’età, la forza, l’ambizione. La vita di per sé non è niente, è il modo in cui l’umanità ha deciso di viverla che la rovina: è tutto un sacrificio, un’attesa, una rincorsa, una privazione.
A me sembra inammissibile che il godimento sia una parentesi del sacrificio e non viceversa. È proprio il concetto che sta alla base a essere disturbante: devi sacrificarti per godere. E potrai godere solo quando si potrà, quando ti sarà consentito, quando l’avrai meritato, quando avrai raggiunto l’obiettivo. Avrebbe avuto senso se avessimo avuto due vite, una per seminare e una per raccogliere, una per sacrificarci e l’altra per godere. Ma così proprio non ne vale la pena.
Sì, lo so, gli articoli sulla ragazza che piange per le otto ore di lavoro sono pensati per dividere i buoni dai cattivi: da una parte gli adulti, vale a dire i lavoratori indefessi, prostrati, sacrificati (i buoni, appunto), dall’altra i “giovani di oggi”, svogliati, bamboccioni, incapaci di fare sacrifici (i cattivi, ça va sans dire)
Ma se provassimo a dare una chiave di lettura diversa a questa storia? Se provassimo ad ammettere che fino a qui abbiamo sbagliato tutto?