La bidella pendolare e la caccia sfrenata al sensazionalismo (inutile e pericoloso)

Alcune riflessioni sulla bidella pendolare, anzi, sul giornalismo e sul perché una non-notizia diventi una notizia da prima pagina.

La storia della bidella pendolare è ben nota a tutti: Giuseppina Giuliano, residente a Napoli, ogni mattina prende il treno per Milano, dove lavora come bidella. Ogni sera, quindi, torna a casa. Il motivo? Non può permettersi di pagare l’affitto nel capoluogo meneghino e quindi preferisce viaggiare tutti i giorni. Questa è la notizia.

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La storia della bidella pendolare mi porta a fare una riflessione sul giornalismo e sulla comunicazione, più che sulla sua storia in sé (vera o presunta che sia). Perché la vicenda di Giuseppina Giuliano racconta un fatto, non una realtà. Non ci dice assolutamente nulla, se non che una ragazza di 29 anni, residente a Napoli, sceglie spontaneamente di fare ottocento chilometri al giorno in treno per raggiungere Milano, dove lavora, e ottocento al ritorno per tornare a casa. Non racconta la situazione del lavoro in Italia, non accende i riflettori sui giovani, non denuncia un fatto. È una storia, come tante altre storie.

La bidella pendolare: una non-notizia che diventa notizia da prima pagina

Ricordate la vicenda (per niente limpida) di Carlotta Rossignoli, la ragazza laureata in Medicina con lode a soli 23 anni? Ecco, siamo di fronte a una situazione non troppo dissimile: allora, qual era l’utilità giornalistica di raccontare la sua storia? Qual è, oggi, il senso di parlare di una lavoratrice che sceglie di passare gran parte della propria giornata in treno? Queste non-notizie a chi e a cosa sono utili? A nessuno e a niente. O forse no.

Del caso della Rossignoli, tolti i privilegi di cui gode, che le hanno permesso di laurearsi anticipatamente, cosa resta? Quasi nulla. Allo stesso modo, nel caso della bidella, chiarito che un affitto nei dintorni di Milano sia certamente più conveniente della vita da pendolare che sostiene di condurre, cosa resta? Quasi nulla. Forse solo una manciata di riflessioni (azzardate e non richieste) sulla ragazza, che – tuttavia – sposterebbero l’attenzione da ciò che in questa storia conta più di ogni altra cosa: la comunicazione. Che è fuorviante, sbilanciata, tendenziosa, sensazionalistica, mirata.

Ormai, le narrazioni di questo tipo non si contano più: rider felici di fare cinquanta chilometri per consegnare un panino, bidelle che accettano il compromesso di vivere in treno per non perdere il lavoro, giovani che rinunciano alla vita sociale per laurearsi in anticipo. Non importa quanto ci sia di vero in queste storie, conta il fatto che finiscano in prima pagina e tolgano spazio, spessore e dignità (ancora una volta) ai giovani. Perché il sottinteso è sempre lo stesso: il lavoro c’è, basta fare qualche sacrificio; chi si impegna ce la fa, il resto sono solo chiacchiere; bisogna accontentarsi, non fare i capricci. Questo non è giornalismo, ma indottrinamento, sono favole morali al contrario.

Ecco, la vera notizia, nel marasma di tante non-notizie, è questa: si cerca di far passare un messaggio ben preciso, si cerca – nemmeno troppo velatamente – di inculcarlo nella mente della gente e di normalizzare (verbo che detesto) cose assolutamente sbagliate. E così, il pubblico medio, nell’apprendere che una ragazza si è laureata in anticipo, prova ammirazione; nel conoscere la storia di una bidella pendolare, prova compassione. Perché il lettore medio abbocca, legge quello che c’è scritto, ma non tra le righe.

E questo è quanto: ancora una volta, l’Italia si rivela un Paese che volta le spalle ai giovani, raccontando solo poche e fortunate eccezioni. Le storie dei fuori sede, delle famiglie che fanno enormi sacrifici, dei lavoratori precari, di quelli che sono costretti a lasciare la propria regione e, spesso, il proprio Paese, non diventano notizia, ma restano ai margini, come un rumore di fondo che, a forza di farci l’abitudine, nessuno sente più.

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