Il discorso integrale di Sergio Mattarella per il 25 aprile «Intorno all’antifascismo è doverosa l’unità popolare»

Il discorso integrale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sul 25 aprile «Il fascismo aveva insita la ideologia della violenza»

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Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha partecipato alle solenni celebrazioni del 25 aprile a Civitella in Val di Chiana, dove ha espresso parole di profondo significato e riconoscimento storico. Durante il suo intervento, ha posto l’accento sui tragici eventi che caratterizzarono quel periodo, definendo tali episodi come “gravissimi crimini di guerra”, contrari non solo alle norme internazionali, ma anche all’onore militare e ai principi fondamentali di umanità.

Con fermezza e chiarezza, il Presidente ha condannato senza riserve gli atti di violenza perpetrati ai danni di ostaggi e prigionieri inermi, sottolineando che nessuna ragione, né di natura militare né di qualsiasi altro tipo, può essere invocata per giustificarne la commissione. Le sue parole hanno riflettuto un profondo senso di rispetto per le vittime e di impegno per la difesa dei valori umanitari, fornendo un chiaro monito contro ogni forma di violenza e arbitrio.

Attraverso il suo discorso, il Presidente Mattarella ha evidenziato l’importanza di ricordare e onorare il sacrificio di coloro che hanno lottato per la libertà e per i principi democratici, invitando alla riflessione sulle conseguenze nefaste della guerra e sull’importanza di difendere la dignità e i diritti umani in ogni circostanza. Le sue parole hanno rappresentato un potente richiamo alla coscienza collettiva e alla necessità di custodire gelosamente i valori fondamentali su cui si fonda la nostra società: l’antifascismo.

Il testo integrale del discorso di Mattarella per il 25 aprile 2024: ecco cosa ha detto

Di seguito il testo integrale del discorso di Sergio Mattarella a Civitella di Val di Chiana in occasione del 25 aprile 2024.

«Presidente della Regione, Sindaco, autorità, cittadini,

siamo qui riuniti per celebrare il 25 aprile – l’anniversario della Liberazione – a Civitella in Val di Chiana, a ottant’anni dalla terribile, disumana, strage nazifascista perpetrata, in questo territorio, sulla popolazione inerme.

Come abbiamo, poc’anzi, ascoltato dalle parole del Sindaco, della professoressa Ponzani, dalle letture – ringrazio Ottavia Piccolo per la sua appassionata interpretazione – e, con emozione, dalla straordinaria testimonianza di Ida Balò, gli eccidi avvennero, oltre che a Civitella, a Cornia, dove la crudeltà dei soldati della famigerata divisione Goring si sfogò in maniera particolarmente brutale, con stupri e uccisioni di bambini.

Nella stessa giornata si compiva, non lontano da qui, un altro eccidio, a San Pancrazio, dove furono sterminate oltre settanta persone.

Come è testimoniato dai documenti processuali, gli eccidi furono pianificati a freddo, molti giorni prima, e furono portati a termine con l’inganno e con il tradimento della parola. Si attese, cinicamente, la festa dei Santi Pietro e Paolo per essere sicuri di poter effettuare un più numeroso rastrellamento di popolazione civile.

La tragica contabilità del 29 giugno del ’44, in queste terre racconta di circa 250 persone assassinate. Tra queste, donne, anziani, sacerdoti e oltre dieci minorenni. Il più piccolo, Gloriano Polletti, aveva solo un anno. Maria Luisa Lammioni due.

Il parroco di Civitella, don Alcide Lazzeri, e quello di San Pancrazio, Don Giuseppe Torelli, provarono a offrire la loro vita, per salvare quella del loro popolo, ma inutilmente. Furono uccisi anch’essi, insieme agli altri. Alcuni ostaggi, destinati alla morte, rimasero feriti o riuscirono a fuggire. Nei loro occhi, stupefatti e impauriti, rimarrà per sempre impresso il ricordo di quel giorno di morte e di orrore.

Sono venuto, oggi, qui a Civitella – uno dei luoghi simbolo della barbarie nazifascista – per fare memoria di tutte le vittime dei crimini di guerra, trucidate, in quel 1944, sul territorio nazionale e all’estero.

Non c’è parte del suolo italiano – con la sola eccezione della Sardegna – che non abbia patito la violenza nazifascista contro i civili e non abbia pianto sulle spoglie dei propri concittadini brutalmente uccisi.

La Regione che ci ospita – la Toscana – è tra quelle che hanno pagato il più alto tributo di sangue innocente, insieme all’Emilia Romagna e al Piemonte,

La magistratura militare e gli storici, dopo un difficile lavoro di ricerca, durato decenni, hanno, finora, documentato sul territorio italiano cinquemila crudeli e infami episodi di eccidi, rappresaglie, esecuzioni sommarie.

Con queste barbare uccisioni, nella loro strategia di morte, i nazifascisti cercavano di fare terra bruciata attorno ai partigiani per proteggere la ritirata tedesca, di instaurare un regime di terrore nei confronti dei civili perché non si unissero ai partigiani, di operare vendette nei confronti di un popolo, considerato inferiore da alleato e, dopo l’armistizio, traditore.

Si trattò di gravissimi crimini di guerra, contrari a qualunque regola internazionale e all’onore militare e, ancor di più, ai principi di umanità.

Nessuna ragione, militare o di qualunque altro genere, può infatti essere invocata per giustificare l’uccisione di ostaggi e di prigionieri inermi.

I nazifascisti ne erano ben consapevoli: i corpi dei partigiani combattenti, catturati, torturati e giustiziati, dovevano rimanere esposti per giorni, come sinistro monito per la popolazione. Ma le stragi di civili cercavano di tenerle nascoste e occultate, le vittime sepolte o bruciate. Non si sa se per un senso intimo di disonore o per evitare d’incorrere nei rigori di una futura giustizia, o, ancora, per non destare ulteriori sentimenti di rivolta tra gli italiani.

All’infamia della strage di Marzabotto, la più grande compiuta in Italia, seguì un corollario altrettanto indegno: la propaganda fascista, sui giornali sottoposti a controlli e censure, negava l’innegabile, provando a smentire l’accaduto, cercando di definire false le notizie dell’eccidio e irridendo i testimoni.

Occorre – oggi e in futuro – far memoria di quelle stragi e di quelle vittime e sono preziose le iniziative nazionali e regionali che la sorreggono. Senza memoria, non c’è futuro.

Una lunga di scia di sangue ha accompagnato il cammino dell’Italia verso la Liberazione. Il sangue dei martiri che hanno pagato con la loro vita le conseguenze terribili di una guerra ingiusta e sciagurata, combattuta a fianco di Hitler nella convinzione che la grandezza e l’influenza dell’Italia si sarebbero dispiegate in un nuovo ordine mondiale. Un ordine fondato sul dominio della razza, sulla sopraffazione o, addirittura, sullo sterminio di altri popoli. Una aspirazione bruta, ignobile, ma anche vana.

Totalmente sottomessa alla Germania imperialista di Hitler, l’Italia fascista, entrata nel conflitto senza alcun rispetto per i soldati mandati a morire cinicamente, non avrebbe comunque avuto scampo. Ebbe a notare, con precisione, Luigi Salvatorelli: «Con la sconfitta essa avrebbe perduto molto, con la vittoria tutto…»

Generazioni di giovani italiani, educati, fin da bambini, al culto infausto della guerra e dell’obbedienza cieca e assoluta, erano stati mandati, in nome di una pretesa superiorità nazionale, ad aggredire con le armi nazioni vicine: le «patrie degli altri» come le chiamava don Lorenzo Milani.

Nella disastrosa ritirata di Russia, sui campi di El Alamein, nelle brutali repressioni compiute in Grecia, nei Balcani, in Etiopia, nelle deportazioni degli ebrei verso i campi di sterminio, nel sostegno ai nazisti nella repressione della popolazione civile, si consumò la rottura tra il popolo italiano e il fascismo.

Si verificò – scrisse ancora Salvatorelli – «una crisi morale profonda, una disaffezione completa rispetto al regime, un crollo disastroso dell’idolo Mussolini.»

Il fascismo aveva in realtà, da tempo, scoperto il suo volto, svelando i suoi veri tratti brutali e disumani.

L’8 settembre, con i vertici del Regno in fuga, fece precipitare il Paese nello sconforto e nel caos assoluto. Ma molti italiani non si piegarono al disonore. Scelsero la via del riscatto. Un riscatto morale, prima ancora che politico, che recuperava i valori occultati e calpestati dalla dittatura. La libertà, al posto dell’imposizione. La fraternità, al posto dell’odio razzista. La democrazia, al posto della sopraffazione. L’umanità, al posto della brutalità. La giustizia, al posto dell’arbitrio. La speranza, al posto della paura.

Nasceva la Resistenza, un movimento che, nella sua pluralità di persone, motivazioni, provenienze e spinte ideali, trovò la sua unità nella necessità di porre fine al dominio nazifascista sul territorio italiano, per instaurare una nuova convivenza, fondata sul diritto e sulla pace.

Scrisse padre Davide Maria Turoldo: «Tra i morti della Resistenza vi erano seguaci di tutte le fedi. Ognuno aveva il suo Dio, ognuno aveva il suo credo, e parlavano lingue diverse, e avevano pelle di diverso colore, eppure nella libertà e nella dignità umana si sentivano fratelli».

Fu così che reduci dalla guerra e giovani appassionati, contadini e intellettuali, monarchici e repubblicani, si unirono per lottare, con le armi, contro l’oppressore e l’invasore. Tra di loro uomini, donne, ragazzi, di ogni provenienza, di ogni età. Combatterono a viso aperto, con coraggio, contro un nemico feroce e soverchiante per numero, armi e addestramento.

Vi fu l’eroica Resistenza dei circa 600 mila militari che, dopo l’8 settembre, rifiutarono di servire la Repubblica di Salò, il regime fantoccio instaurato da Mussolini sotto il controllo totale di Hitler. Furono passati per le armi, come a Cefalonia e a Corfù, o deportati nei lager tedeschi. Furono definiti “internati militari”, per negare loro in questo modo persino lo status di prigionieri di guerra. Ben cinquantamila di loro morirono nei campi di detenzione in Germania, a causa degli stenti e delle violenze.

Vi fu la Resistenza delle popolazioni, ribellatesi spontaneamente di fronte a episodi di brutalità e alle violenze, scrivendo pagine di splendido eroismo civile. Vi furono le coraggiose lotte operaie, culminate nei grandi scioperi nelle industrie delle città settentrionali.

In tutta la Penisola, nelle montagne e nelle zone di mare, si attivò spontaneamente, in quegli anni drammatici, la rete clandestina della solidarietà, del risveglio delle coscienze e dell’umanità ritrovata.

Migliaia di uomini, di donne, di religiosi, di funzionari dello Stato, operai, borghesi, rischiando la propria vita e quella dei loro familiari, si opposero alla dittatura e alle violenze sistematiche, nascondendo soldati alleati, sostenendo la lotta partigiana, falsificando documenti per salvare gli ebrei dalla deportazione, stampando e diffondendo volantini di propaganda.

Fu la Resistenza civile, la Resistenza senza armi, un movimento largo e diffuso, che vide anche la rinascita del protagonismo delle donne, sottratte finalmente al ruolo subalterno cui le destinava l’ideologia fascista.

Scrive a questo proposito Claudio Pavone: «Essere pietosi verso altri esseri umani era di per sé una manifestazione di antifascismo e di resistenza, quale che ne fosse l’ispirazione, laica o religiosa. Il fascismo aveva insita la ideologia della violenza, la pietà non era prevista…»

La Resistenza, nelle sue forme così diverse, contribuì in misura notevole all’avanzata degli Alleati e alla sconfitta del nazifascismo.

Ai circa trecentocinquantamila soldati, venuti da Paesi lontani, morti per liberare l’Italia e il mondo dall’incubo del nazifascismo, l’Italia si inchina doverosamente, con commozione e con riconoscenza.

Quei ragazzi, che riposano sotto le lapidi bianche dei cimiteri alleati che costellano la nostra Penisola, li sentiamo come nostri caduti, come nostri figli.

Liberazione, dunque, dall’occupante nazista, liberazione da una terribile guerra, ma anche da una dittatura spietata che, lungo l’arco di un ventennio, aveva soffocato i diritti politici e civili, calpestato le libertà fondamentali, perseguitato gli ebrei e le minoranze, educato i giovani alla sacrilega religione della violenza e del sopruso. L’entrata in guerra, accanto a Hitler, fu la diretta e inevitabile conseguenza di questo clima di fanatica esaltazione.

Il 25 aprile è per l’Italia una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata, e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche. Quella pace e quella libertà, che – trovando radici nella resistenza di un popolo contro la barbarie nazifascista – hanno prodotto la Costituzione repubblicana, in cui tutti possono riconoscersi, e che rappresenta garanzia di democrazia e di giustizia, di saldo diniego di ogni forma o principio di autoritarismo o totalitarismo.

Aggiungo – utilizzando parole pronunciate da Aldo Moro nel 1975 – che “intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere d’altra parte la varietà e la ricchezza della comunità nazionale, il pluralismo sociale e politico, la libera e mutevole articolazione delle maggioranze e delle minoranze nel gioco democratico”.

A differenza dei loro nemici, imbevuti del culto macabro della morte e della guerra, i patrioti della Resistenza fecero uso delle armi perché un giorno queste tacessero e il mondo fosse finalmente contrassegnato dalla pace, dalla libertà, dalla giustizia.

Oggi, in un tempo di grande preoccupazione, segnato, in Europa e ai suoi confini, da aggressioni, guerre e violenze, confidiamo in quella speranza.

E per questo va ribadito: Viva la Liberazione, Viva la libertà, viva la Repubblica».

Buon 25 aprile e Viva l’Italia antifascista.